Aiutare è un arte difficile. Sembra qualcosa di semplice e naturale. Qualcosa che si può fare in modo istintivo e senza alcuno sforzo. Ma è davvero così? Chi si occupa professionalmente di relazioni di aiuto sa che le cose non sono così semplici. Anche il comune buon senso può trarre in inganno. Proviamo a esplorare alcune delle strane regole che informano le relazioni di aiuto efficaci.
Non esiste aiuto senza richiesta esplicita
La regola ineludibile nel fornire aiuto a qualcuno è che questo aiuto sia richiesto. Non ci sono eccezioni a questa regola, tranne l’incapacità di intendere e di volere. La richiesta di aiuto deve essere esplicita e circostanziata. Aiutare qualcuno senza che sia stato richiesto può costituire un atto violento. E deve far sorgere qualche interrogativo sui vantaggi, anche innocenti, di chi vuole aiutare a tutti i costi.
Aiutare come semplice offerta
Ma bisogna per forza attendere una richiesta di aiuto o si può anche offrirlo? Si può anche offrirlo, ma esattamente come si offre una tazza di tè. Possiamo offrire la tazza riempiendola al centro del tavolo. Ma il movimento di allungarsi e prendere la tazza, e quindi di bere ed accettare l’offerta, è lasciata all’altro. Un po’ diverso dal saltargli addosso e costringerlo a bere, vero? La strada maestra perché un aiuto sia efficace è che la persona che ne ha esigenza ne prenda consapevolezza e si assuma la piena responsabilità sia della propria difficoltà sia della richiesta di cosa serve. Se tale consapevolezza non emerge bisogna accettare che il fallimento è molto probabile. E fare i conti con il proprio senso di impotenza. “Aiutati che Dio ti aiuta” non è una frase senza senso. Va da sé che una condizione di riservatezza può solo favorire la formulazione della richiesta.
“Deve capirlo senza che io lo chieda”
Chi è convinto che deve essere l’altro a capire di cosa si ha bisogno, anche se in perfetta buona fede, sta instaurando una forma di potere sull’altro. Il potere è ovvio. Se non si è fatta una richiesta precisa, si ha il potere di non rendere mai sufficiente quanto ricevuto. E di tenere inevitabilmente l’altro in scacco. La richiesta è infatti indefinita ed infinita, quindi inesaudibile. Chiedere qualcosa di preciso significa dare la possibilità all’altro di dire di si o di no. E questo regala chiarezza, evidenzia limiti, evita litigi, crea intimità e trasparenza nei rapporti.
I consigli servono in genere a poco
Ogni essere umano è unico ed irripetibile. Ogni persona rappresenta il mondo in un modo assolutamente soggettivo. Un consiglio non è altro che una strategia di adattamento generata di fronte ad un problema. Che parte quindi da una propria rappresentazione delle cose, che può anche essere molto diversa da quella del ricevente. Può essere valido, ma non sempre efficace. Se ci fate caso, quando diamo un consiglio l’altro risponde quasi sempre nel senso di trovarci qualcosa che non va. Non è un caso. Infatti se uno dice dall’altro cosa deve fare, da qualche parte lo sta anche svalutando, gli sta dicendo di essere migliore, più capace di lui nell’affrontare il problema. E questo può creare una reazione spiacevole. Oppure, peggio, se c’è invece adesione senza riserve, ci si conferma una presunta incapacità. Quindi pure i migliori consigli, se non ricevuti nella opportuna modalità, possono far danni. Meglio dargli almeno la forma di un punto di vista personale (“io farei”) piuttosto che una prescrizione (“tu devi”).
Chi aiuta ha un vantaggio psicologico
Sia chiaro: si aiuta dal cuore, per un positivo moto dell’anima. E lo si fa spesso con sincerità e pulizia. Ma esistono anche dei vantaggi psicologici nell’aiutare. Al di là dell’aspettativa consapevole o inconsapevole di varie forme di riconoscenza. E non c’è nulla di male. Il primo nasce nell’infanzia. Una gratificazione affettiva (se non esistenziale) da parte di genitori per figli che si dimostrano buoni e servizievoli. Una strategia per ottenere approvazione, appresa da bambini e consolidata nell’età adulta. La mancanza di riconoscenza, che tanto può ferire chi aiuta, riapre le ferite dei non amati. Di quelli che malgrado la loro bontà non si sono sentiti amati e riconosciuti dai genitori o dal proprio sistema sociale. Non possono che avvertire un profondo senso di ingiustizia e ingratitudine. Quello che non si avverte è l’esigenza personale di un riconoscimento.
Aiutare impedisce le relazioni simmetriche
Non finisce qui. Chi aiuta rispetto a chi è aiutato stabilisce una inevitabile asimmetria nella relazione. Nel senso che si mette naturalmente in una posizione di pur lieve superiorità. A volte questo è voluto e diventa manipolazione. Ad esempio un messaggio tipo “Tu non puoi fare a meno di me e quindi non mi lascerai” serve a rassicurare un’angoscia. Ci si mette nella posizione di un genitore per mettere l’altro in quella del bambino bisognoso. Non funziona sempre bene. Un partner bambino regala una sensazione in effetti solo apparente di controllo del rapporto. Ed in più, una relazione sbilanciata non consente il crearsi di complicità ed intimità: chi aiuta in modo coatto finisce per sentirsi solo, prosciugato ed inappagato.
Meglio insegnare a pescare che regalare il pesce
Ma a parte i possibili giochi psicologici come si aiuta davvero qualcuno? Appunto: meglio insegnare a pescare che regalare il pesce. Quindi provare a favorire nell’altro la ricerca autonoma della soluzione, senza cercare di fornirla per primi. In termini di comunicazione una regola classica è quella di ascoltare molto e di parlare soprattutto per fare domande aperte. In termini generali il segreto è avere fiducia in chi è in difficoltà, nelle sue potenzialità, nel fatto che può farcela anche se al momento è smarrito. Se non stimiamo (oso dire se non “amiamo”) chi aiutiamo difficilmente l’aiuto sarà efficace. Se non abbiamo in definitiva fiducia negli esseri umani, nella loro meravigliosa natura, stiamo facendo qualcosa di diverso dall’aiutare veramente..
Il buonismo è nemico del bene
A volte il buonismo è nemico della bontà. Dare in modo indiscriminato, creare dipendenze, regalare senza criterio, evitare le difficoltà, le frizioni, eliminare le frustrazioni sono tutti comportamenti che non vanno nella direzione di un aiuto efficace. Un aiuto efficace rende sicuri di sé, autonomi, liberi, fiduciosi nelle proprie capacità, abili nell’utilizzo delle proprie potenzialità, agili nel trasformare apparenti difetti in risorse. Imparare a far questo, va detto, non è affatto facile. Può essere sicuramente un’inclinazione, ma per renderla operativa è necessaria esperienza ed attenzione, anche se non lo si fa per lavoro, ma si cerca di essere semplicemente un buon genitore. E, malgrado l’apparenza è un compito per certi versi ingrato. Il compito finale di chi aiuta è, infatti, rendersi inutile. E non è sempre facile accettarlo.